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Pupi Avati, 'il cinema bello spesso non fa una lira'
Si racconta sul palco del Maxxi, 'No al declino culturale'
La delusione per l'esito in sala del suo ultimo film, 'L'orto americano' ("per alcuni il migliore che ho fatto"), l'innamoramento per la moglie, la sua 'lei', bellissima ancora oggi a 81 anni, l'"inesplicabile" che è al centro di un'opera d'arte sia essa poesia o cinema, come nei film di Federico Fellini. Pupi Avati si racconta senza filtri sul palco del Maxxi per la rassegna Le Conversazioni a partire dall'ultimo film che "riassume - dice - tutto quello che ho imparato". Intervistato da Antonio Monda, dopo aver ricevuto dal presidente della commissione Cultura di Montecitorio, Federico Mollicone, la Medaglia della Camera dei deputati, il regista bolognese punta il dito contro il "declino culturale del paese: una volta si andava anche a vedere un film difficile e poi non si pensava solo a dove andare a mangiare la pizza, oppure ci andavamo pure ma discutevamo, il film ci rimaneva dentro, era oggetto di riflessione e discussione. Quando invece vai al cinema solo per evasione - prosegue Avati - questo vuole dire che qualcosa manca da parte delle istituzioni, e io sto cercando di sollecitare il governo, sto cerando di indurli a considerare che gli aspetti culturali non sono secondari; il cinema non è di sinistra, è bello o brutto. C'è un cinema orrendo che spesso fa molti soldi e un cinema bello che spesso non fa una lira; questo paese merita qualcosa di più di quello che gli viene offerto". Nel 1963 quando uscì '8 e mezzo' "ci mandai i miei amici tra cui c'era un fruttivendolo e quelli con cui giocavo a biliardo: piacque a tutti". In quel film c'era quel qualcosa di "inesplicabile, il punto di forza che lo motivava come motiva anche i miei: ha a che fare - spiega Avati nell'incontro di ieri sera al Maxxi - con qualcosa che ti raggiunge e ti visita, tu sei un essere ricevente e allora tutto diventa sacro". Dall'ideale al reale, con le sue difficoltà. "Ho sempre cercato di avere una posizione nel cinema non garantita e questo - racconta ancora Avati - mi ha permesso di avere una mia identità, certo mi è costata l'ira di dio. Io e mio fratello ci siamo permessi di fare un cinema che non obbediva a nessuna regola e ora stiamo passando alla cassa. L'ultimo film non è andato bene, - prosegue il regista - le recensioni sono state meravigliose ma il pubblico non c'è andato". E per questo, ammette, "sto vivendo un periodo della mia vita molto complicato, quando hai 40 o 50 anni le sconfitte le vivi in un modo ma quando hai la mia età e hai giocato tutte le fiches è diverso. E mi chiedo perché la gente non sia andata a vederlo, eppure alcuni hanno detto che è la mia cosa migliore. E' una sconfitta cocente". Con il dono dell'affabulazione che gli è proprio Avati racconta come una sceneggiatura l'incontro con la moglie, Amelia Turri. "Con le ragazze la poesia non funzionava, essere gracili e introversi men che meno; noi eravamo orrendi e pure loro, del resto venivamo dalla fame, dalla guerra, ho una foto del primo liceo che sembra quella della famiglia Addams.. Poi una sera vidi passare Lei (ognuno ha una sua Lei) per mano con un principe. Con un amico organizzammo di invitarla a una caccia al tesoro sulle colline di Bologna e fini' che la dovevo accompagnare a casa: 5 km di tornanti e non mi veniva niente da dire, lei scende all'arrivo e Dio si ricorda di me e mi suggerisce una scena. Le dico 'fermati, guarda' mostrando l'orologio e poi le chiedo l'ora. Me la dice. Ma di che giorno? Del 18 febbraio, il mio compleanno che, dico, sta finendo senza un bacio .. Lei me lo diede. Io compio gli anni il 3 novembre. Poi è diventata mia moglie, siamo sposati da sessant'anni e lei è sempre stata là nel successo , nell'insuccesso, mi è sempre stata accanto e misteriosamente è ancora bellissima. Di lei sono ancora geloso e innamorato pazzo".
X.Cheung--CPN